Il 3 febbraio sono andato a Milano e salito sul palco di Don’t tell my mom, uno story show ideato da Matteo Caccia (Radio 24). L’idea dello show è: “delle persone salgono su un palco e raccontano una storia divertente che non racconterebbero alla loro mamma.” (cit. Caccia) In scena, nell’afa del locale/carnaio, troppo vestito com’ero, ho sudato parecchio e raccontato di come fosse nata la mia storia d’amore con Laura. Nel farlo, ho sentito per la prima volta in vita mia la sensazione di “ubuntu” che, dice Chris Abani nel suo Ted Talk, è “il divenire consapevoli della propria umanità, vedendola riflessa negli altri.” È facile specchiarti negli intimi: una moglie, un figlio… È una cosa naturale perché quelli non sono veramente “altri”, ma una parte di te. Non percepisci la profondità del momento. Diverso è mettersi a nudo davanti a un centinaio di estranei, raccontare che brutta persona tu sia e sentire che il pubblico, vedendoti brutto, ti considera invece bello. Ride, applaude, anche quando a te non sembra ci sia da farlo. “The moment we are more ugly is the moment we are more beautiful.” Dice Chris Abani. Ecco, io su quel palco mi sono sentito come lui.
Soffrivo come lui, a tratti tremavano anche a me le mani, per l’immensa emozione. E però, soffrendo, sentivo di liberarmi. Soprattutto sentivo un senso. Sentivo cioè che quella che stavo facendo lì, microfono in mano, per lo meno sul piano della mia vita pubblica, era una delle cose più dotate di senso che mai avessi fatto. E l’ha pensato anche mio figlio che, dopo aver visto la mia performance online, mi ha disegnato così, sul palco. C’è anche il microfono! È quel serpente arancione davanti a me! È stata la prima volta, da quando è nato, che Miro mi ha dato l’impressione di essere fiero di me, proprio per come sono, e non come padre.